C’era una volta…
un po’ strano forse, ma non sarebbe poi sbagliato iniziare questo personale racconto col classico incipit: si perchè è vero che non molto tempo è trascorso dagli eventi testimoniati attraverso queste fotografie (poche istantanee parte di un vasto archivio), ma é altrettanto vero che tendiamo a rimuovere, ad allontanare da noi quella irreale e soffocante condizione; quelle emozioni negative tendiamo ad affogarle nel mare del subconscio legandole, strette, a pesanti pietre di necessità. Ed ecco che a riviverle, quelle scene, ci sembrano lontane secoli e provocano un dolore ancora da esplorare. Dentro di me ricordo ora quei giorni come sospesi; un lungo istante di attesa quando il tempo perse qualche battito, quando la lancetta si fermo’ su un brutto pensiero un po’ più a lungo di quanto richiestole. Le strade deserte, l’assenza dei rumori, delle voci, delle musiche e degli odori, i messaggi di speranza affidati alle vetrate dei negozi chiusi e i manichini abbandonati nelle vetrine. Poi ombre solitarie, individui distanti e timorosi via via più vicini prendere coraggio e riappropriarsi dei propri luoghi e delle proprie persone. Ancora oggi rimangono alcune “usanze” e regole da dovere scrostare dalle nostre vite; vite tutt’ora irrequiete, sotto questa cappa di incertezza che stenta ad abbandonare questo nostro tempo.
Strade deserte
Un po’ stordito calpestavo nuove strade che ben conoscevo. Davanti a me l’infinito palcoscenico di un teatro abbandonato da poco. Dell’umana messinscena rimanevano i fondali, le ambientazioni, le scenografie: camminavo per un’immensa cinecittà, grande quanto il mondo. Non la mancanza di qualcuno per le strade, quel che turbava era l’assenza di quegli stimoli che danno alla mente la rassicurazione di essere su una terra abitata: tutto era fermo, spento, abbandonato. Capita di trovarsi soli lungo certe vie, ma c’è il rumore di un lavoro, un odore nel vento, le note di una musica o il vociare confuso di una finestra: ed invece niente, nessuna vibrazione se non quella di una natura liberata, una presenza piacevole e decisa come quella dell’erba piu’ alta e selvaggia attorno ai palazzi e a lato delle vie, affrancata dall’umana ossessione del controllo. I teatranti erano partiti di fretta per un nuovo spettacolo, imprevisto ed intimo; interpreti di scene inedite da recitare “a braccio” dietro mura domestiche.
Messaggi in vetrina
Emozioni e speranze esposte in vetrina, affidate come “messaggi nella bottiglia” a quell’oceano deserto qual era allora la città, nella speranza che qualche solitario navigatore le raccogliesse, le leggesse… le fotografasse. E mi chiedevo dove fossero quegli autori, naufraghi di quella società che colava a picco; mi chiedevo se sarebbero tornati e se avrebbero riaperto le loro attività. Guardavo dentro a quelle vetrine e vedevo l’assenza, poi osservavo tutt’attorno e la sentivo, l’assenza; io stesso naufrago, in cerca di segni e tracce.
Manichini animati
Forgiati dall’uomo a propria immagine e somiglianza, presero vita dal contrasto con l’assenza dei loro creatori; come burattini di legno premiati infine con un’anima e nel medesimo tempo puniti: nessuno piu’ ad ammirarli ora che vivi e vanitosi. Sconcertati e preoccupati parevano chiedersi, chiedermi, che fine avessimo fatto e che fine avrebbero fatto. Derelitti, della città i nuovi protagonisti tristi, per troppi giorni con addosso gli stessi abiti alla moda, ora pezze senza piu’ scopo nè valore.
Vietato
Vagando sbattevo lo sguardo e le voglie contro luoghi incantati ora vietati. Prati, laghi, fiumi, paesaggi proibiti che divenivano in quell’istante i piu’ sublimi, da tuffarcisi dentro come Julie Andrews e Dick Van Dyke in quei dipinti sul marciapiede nel 64’. I giochi vietati ai bambini erano il simbolo di quell’aberrazione; mi fermavo a guardare l’assordante assenza della corse e delle risa. L’isola dei pirati era, senza i piccoli pirati, un non luogo, una bolla inviolabile ed incorporea, un singolo fotogramma in continua impressione sul reale; e quell’altalena… immobile. Neanche il vento si azzardava! Dov’erano quei piccoli pirati? Forse impagliati ed alienati davanti ad uno schermo…

Lento ritorno
Ombre lontane e solitarie entravano ora nel mirino della mia camera contribuendo, timide, alla composizione delle immagini che, seppur già con forma e senso, erano fino ad allora amaramente prive di umanità. Inutile sfruttare l’artificio ottico del teleobiettivo per avvicinarmi a loro, poichè sarebbero rimaste sostanzialmente figure lontane e diffidenti; avrei in fin dei conti solo ribaltato l’insensato motto “Distanti ma vicini” tanto in voga, in un’altrettanto insensato “Vicini ma distanti”. Chiusi i bar, le farmacie erano il nuovo ed unico luogo di una particolare movida:”una Taichipirinha per favore!”. Non mancavano le lunghe code per entrare come nei locali piu’ “IN”. Asettici luoghi di penitenza e ricerca del perdono, dove condividere le angosce e sentirsi piu’ “sani”, uffici che certificavano che si sarebbe rimasti in vita certamente ancora per qualche giorno.
Lentamente, spinte da una brezza di diffidente desiderio, le genti si riaffacciavano al mondo. Il grande palcoscenico era ora calcato da maschere di un teatro nuovo che non esaltava i caratteri ma li celava; infiniti personaggi erano il medesimo personaggio. Per le strade occhi agitati e introversi, occhi svelti nel trovare la via della distanza dagli altri occhi; un brulicare di figure che si respingevano come calamite di egual carica, una carica negativa la cui principale fonte era l’incontrollata, irrefrenabile ed incomprensibile fiumara di numeri, dati, statistiche: un’onda densa di ansia che si abbatteva sulle nostre facce senza soluzione di continuità; come una punizione dantesca, contrappasso per chissà quale peccato capitale e popolare. Corse in aiuto l’allora lento e saggio scorrere del tempo: dapprima si riavvicinarono gli sguardi, poi le mani e i volti, finche’ anche la pelle torno’ a toccare nuova pelle. Una forza era esplosa naturale e contagiosa che nessuno aveva piu’ il potere di fermare.
Era “Green”
Nella nuova era definita “green”, la quale sempre piu’ pare soddifare gli interessi di pochi, un nuovo e taciuto disastro ambientale si manifestava ai miei occhi: milioni di dispositivi medici si moltiplicavano nell’ambiente senza alcun predatore naturale a regolarne la diffusione.

Vita Maestra
Oggi, a ripensare quei lunghi mesi lasciati indietro non senza danni, comprendo che son stati anche mesi di scuola, costretti al nostro banco dalla Maestra Vita che, signora vecchio stampo, ci tirava certi schiaffoni memorabili… e non potevi lasciare l’aula, e non potevi certo marinare. Abbiamo dunque avuto tempo per riflettere, per leggere, per approfondire la conoscenza della società, delle regole del gioco, dei grandi interessi, dell’essere umano e delle sue paure, della vita e della morte; e questo lo vedo ora come un dono inatteso che ci ha permesso di crescere sotto molti aspetti. Tocca ad ognuno di noi fare tesoro di questi insegnamenti per gli anni a venire; anni che, prigionieri dei “guidati” e violenti processi di cambiamento in corso, non meno incerti si prospettano. Siamo tutti sulla stessa barca ad affrontare le onde della storia. La comunità deve rimanere unita godendo dei dubbi e delle opinioni di tutti; perchè troppe paure, troppe divisioni, troppe ingiurie e violenze, troppe etichette e strumentalizzazioni, troppe false certezze hanno permeato le comunità indebolendole, corrodendone in modo nauseante il fragile senso comune di giustizia e fratellanza. Il prossimo, il molto prossimo futuro, già presente, ci dirà se qualcosa abbiamo imparato, se saremo riusciti finalmente a diventare scolari della storia.
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